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Marco Petrini

Marco Petrini

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Marco Petrini nasce a Roma il 29 gennaio 1958 da una famiglia che da sette generazioni si occupa di edilizia. Il padre Ettore, laureato in architettura nel 1947, è uno dei primi iscritti all’Albo Professionale degli Architetti di Roma. Le prime esperienze iniziano quindi nei cantieri di famiglia, sino all’iscrizione nel 1976 all’Università “La Sapienza” di Roma, dove frequenta i corsi di Bruno Zevi, Costantino Dardi, Paolo Portoghesi, Gaetano Miarelli Mariani, e si laurea nel 1982. Nel 1983 si iscrive all’Albo degli Architetti di Roma ed inizia l’attività professionale. Supera poi il concorso di ammissione alla Scuola di Specializzazione in Restauro di Roma dove frequenta i corsi di Giovanni Carbonara, Enrico Guidoni, Paolo e Laura Mora, Renato Bonelli, Antonino Giuffrè e si diploma con tesi sulle case Medioevali di Gubbio. L’attuale attività professionale è prevalentemente rivolta a progetti di recupero e restauro del patrimonio edilizio esistente, si svolge in Umbria, Toscana, Lazio ed Emilia Romagna dove dal 2012 è impegnato nel restauro del patrimonio monumentale colpito dal sisma. A tale attività si affiancano collaborazioni con l’Università di Roma “La Sapienza” su programmi di tutela e ricerca ed attività pubblicistica e convegnistica. A partire dall’anno 2000 ha curato per la Pubblica Amministrazione il restauro monumentale dei maggiori edifici della città di Gubbio. Dal 2011 ha un incarico a contratto per la didattica nell’ambito del corso di Restauro Architettonico presso la facoltà di Ingegneria Edile Architettura di Perugia.

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E’ socio dell’A.SS.I.R.C.O.: Associazione Italiana Recupero e Consolidamento Costruzioni, dell’ANCSA: Associazione Nazionale Centri Storici Artistici. è infine Membro della S.P.A.B. : The Society for the Protection of Ancient Buildings.

 

Works

Per definire coerentemente l’ambito al quale tale disciplina si riferisce occorre preliminarmente qualche approfondimento lessicale. Negli ultimi anni i termini restauro, recupero, riuso, conservazione e consolidamento sono stati spesso utilizzati in modo indifferenziato. Il recupero si rivolge indifferentemente per ragioni in primo luogo economiche a tutto il patrimonio edilizio esistente; il riuso identifica un semplice mezzo per per utilizzare un edificio storico; la conservazione è un’opera di prevenzione e di costante manutenzione, da mettere in atto proprio per evitare l’intervento traumatico del restauro. Generalizzando è possibile affermare che si restaura quindi perchè si è preventivamente riconosciuto il valore artistico, documentale di un oggetto o di qualsiasi testimonianza materiale avente “valore di civiltà”. Tale riconoscimento comporta naturalmente uno studio filologico dell’opera ed un giudizio critico di essa finalizzati alla sua tutela per trasmetterla integralmente al futuro, facilitandone la lettura e senza cancellarne le tracce del passaggio nel tempo. Questa azione si esplicita in un insieme di interventi interdisciplinari che partono quindi dalla prevenzione, per arrivare alla reintegrazione delle lacune, al consolidamento statico, ma senza mai prescindere dall’individuazione di un intelligente riuso del monumento compatibile con le sue “vocazioni”. Le nuove funzioni dovranno essere sempre “mezzi” del restauro e mai “fini”. Questa indispensabile integrazione di competenze specifiche non deve lasciar presupporre che il restauratore debba necessariamente essere dotato di una personalità poliedrica, quasi “leonardesca”, al contrario il suo operato è simile a quello semplice ed umile ma insostituibile del “medico di base”, cui di fatto è accomunato dalla capacità di essere non specialista di un unico settore ma attento conoscitore delle problematiche e delle potenzialità operative delle singole specializzazioni. Il “Restauro Critico” a cui i miei interventi si ispirano in linea concettuale, muove dalla convinzione che ogni intervento costituisce un caso a se, non inquadrabile in categorie, non rispondente a regole prefissate o a dogmi di qualsiasi tipo , ma da reinventare di volta in volta con originalità nei suoi criteri e nei suoi metodi. Sarà sempre l’opera stessa, attentamente indagata con sensibilità storico critica e con competenza tecnica, ad orientare il restauratore sulla via da intraprendere.
La mia attività progettuale è prevalentemente rivolta all’esistente. In questo ambito ogni progetto è la sintesi tra le idee dell’architetto e le istanze del committente, “padre” e “madre” di ogni opera, che trasmettono ad essa i cromosomi del proprio carattere. Questa azione modella e modifica la materia ma non ne genera lo spirito, il genius loci, che è preesistente alla nostra attività. Il mio fine è la ricerca del genius loci: l’espressione del carattere specifico di un luogo, delle sue caratteristiche intrecciate con quelle degli uomini che lo abitano. A volte capita che anche inconsapevolmente gli abitanti di un luogo rimangano depositari di una sorta di memoria latente che resta sopita nel loro inconscio sino a quando attraverso la percezione anche distratta di una forma, di un archetipo questa riemerge con chiarezza. Attraverso l’ascolto è necessario individuare questi segni. L’ascolto è l’atteggiamento più corretto da tenere all’inizio della fase progettuale, un atteggiamento che nella lettura della storia e dello sfondo culturale e sociale di un luogo induce ad interpretare o meglio a reinterpretare, attraverso un linguaggio mai scontato e ripetitivo, i temi del passato compenetrandoli con il presente. La nostra progettualità deve accostarsi alle preesistenze senza prevalere su di esse, al contrario il nostro operato deve essere orientato alla valorizzazione degli elementi originali. Ed è qui che la mia formazione di restauratore mi ha aiutato, infatti i principi cardine su cui si basa tale disciplina enunciano esplicitamente la necessità di “conservare e valorizzare”, con un atteggiamento di “economia espressiva” tendente a facilitare la lettura dell’elemento originale. Non è una rinuncia alla creatività, al contrario è una azione più complessa in quanto il momento creativo non può più essere fine a se stesso ma deve essere necessariamente preceduto dalla piena comprensione del contesto in cui si opera. Non è questa una operazione automatica in quanto dipende dalla sensibilità del progettista, che solo dopo aver completamente assorbito i segni del passato, specifici in ogni luogo, può passare all’elaborazione del nuovo innesto. Non possiamo evitare questo confronto: in architettura la conservazione pura non esiste. La necessità di utilizzare un manufatto architettonico ci impone sempre, per inserire nuovi impianti tecnologici o per nuove esigenze di distribuzione, di aggiungere qualcosa di nuovo. In questa aggiunta dobbiamo saper condensare la nostra comprensione delle preesistenze. Parafrasando Benjamin potrei dire che l’architetto in questi ambiti è “un veggente con lo sguardo rivolto all’indietro”.
Naturalmente una volta che la “contaminazione“ tra segno contemporaneo e ambiente storico è iniziata, il processo avviene anche nella direzione opposta e cioè utilizzando materiale tradizionale per generare forme nuove. Nell’amabile scritto “The act of seeing” il regista Wim Wenders, osserva che “le forme dell’architettura contemporanea hanno superfici lisce, mentre è importante che il materiale abbia una sua trama a grana grossa sulla quale i ricordi possano restare impigliati”. Ecco in questo delicato rapporto tra la superficie e la memoria ho creduto di poter trovare un nuovo linguaggio, dove il segno contemporaneo può trovare una valenza diversa se realizzato con materiali direttamente derivati dalla tradizione storica. Ecco quindi che la pietra, il legno, l’acciaio ossidato ed il vetro possono combinarsi in una composizione assolutamente contemporanea ma che appare “disponibile” ad invecchiare, storicizzandosi. Troppo spesso ambienti di design sembrano essere pensati solo come stage per una fotografia da pubblicare, non accettando elementi estranei, quasi escludendo la vita quotidiana. Sono profondamente convinto al contrario che gli spazi abitativi per svolgere compiutamente la funzione cui sono destinati debbano necessariamente coinvolgere il fruitore in una atmosfera accogliente e protettiva. Occorre creare, con l’uso di materiali adeguati, quegli “appigli per la memoria” di cui ci parla Wim Wenders. Dal 2011 ho iniziato per la COLMEF la progettazione di una linea di oggetti di arredo che si inspirano a questa filosofia. La luce è un formidabile elemento di progettazione. Attraverso l’uso consapevole di un fascio luminoso radente, si ottiene la completa percezione della grana del materiale ed un progetto compiuto. Osservando gli oggetti si può percepire che non sono identificabili da uno stile comune, ciò che li accomuna non è una ricerca estetica fine a se stessa, quanto piuttosto un percorso compositivo dove l’estetica è una conseguenza. La grana e la trama dei materiali vengono utilizzati come diffusori del fascio luminoso, che viene impiegato poi anche per sottolineare elementi particolari. In questa ricerca si innesta anche uno stretto rapporto di collaborazione con artigiani locali, depositari di un grande patrimonio di forme e conoscenze che sta rischiando di scomparire. Questo rapporto tra l’artigianato, per sua natura espressione della civiltà di un territorio ed il design credo possa essere letto come una sfida dalle suggestive conseguenze!
Le immagini che seguono illustrano ambienti di gusto tipicamente classico come ricerca di una possibile sintesi tra le ragioni del nuovo ed il fascino del passato. Le opere contemporanee hanno spesso un limite di fondo: non sanno invecchiare. Nel linguaggio classico si riesce ad ottenere una sorta di “impermeabilità” alle mode, mentre in quello contemporaneo tanto più i segni sono attuali tanto meno resistono al tempo. Illuminante in questo senso è il pensiero di Oscar Wilde “non vi è niente di più pericoloso che l’essere troppo moderni, perchè si corre il rischio di passare improvvisamente di moda”. Quando il committente chiede un ambiente tradizionale, inizia con me un percorso condiviso che passa anche attraverso la ricerca di oggetti antichi della tradizione locale o di altri contesti. Questi oggetti insieme altri arredi provenienti dal passato del committente concorrono ad orientare il progetto. Il passato diventa il telaio dove il processo compositivo tesse la sua trama, per articolarsi poi in nuovi percorsi creativi, senza tuttavia cadere in uno stile ripetitivo e riconoscibile. Gli ambienti che si generano sembrano essere sempre esistiti e non il frutto di una trasformazione contemporanea. Per alcuni architetti questo è un atteggiamento inconcepibile e considerano falsa una forma che non denuncia esplicitamente il proprio tempo. Io credo al contrario che il nostro mestiere possa essere anche quello di scenografi che considerano come fine la realizzazione di uno spazio adeguato alle esigenze dei committenti e le forme per ottenerlo come mezzo. Questa necessità impellente di lasciare un proprio segno, sempre riconoscibile, sembra produrre il risultato di scambiare il fine con il mezzo. Il progettare è attività articolata e complessa. Non mi ritrovo assolutamente nella schiera di coloro che vedono il progettista come un artista, che “depone” la sua creazione intuita in un attimo, dove poi altri dovranno vivere per sempre. Penso al contrario che il nostro mestiere sia più una missione individuale dove di volta in volta e caso per caso sulla base delle preesistenze trovate e delle nuove esigenze del committente si cerchi, manipolando la materia esistente, di dare forma ai sogni ed alle emozioni di chi abiterà quei luoghi. In questo modo l’opera dell’architetto diventa il tramite indispensabile per riuscire, attraverso la valorizzazione della materia, a realizzare uno spazio che interagisca in modo positivo con il carattere dei fruitori. È un’operazione delicata poiché coinvolge la sensibilità ed il gusto, ma rischiosa in quanto non esistono regole che disciplinano un concetto instabile e fluttuante come il gusto, né corsi universitari per insegnarlo.
San Marziale a Gubbio era un Monastero del 1100. La particolarità del complesso è data dal fatto che non era nato nel medioevo come “nuova fondazione” quindi con tipologia monastica, ma si è formato per successive donazioni di privati che cedevano case già edificate all’ordine religioso delle Clarisse. L’assetto finale quindi era quello di un brano di città medioevale, con piccole vie, orti e piazzette, ma separato da essa da un muro di cinta (clausura). L’effetto che ho avuto nel primo sopralluogo è stato sorprendente, in quanto nel varcare il “muro” ho avuto la netta impressione di iniziare un viaggio nel tempo. La trasformazione della destinazione d’uso da monastero ad abitazioni non è stata traumatica in quanto appunto il monastero era principalmente costituito da case ( un buon progetto di restauro inizia solo con la scelta di destinazioni d’uso compatibili). L’operazione infatti prevedeva l’inserimento di 30 unità abitative di diversa metratura, di uffici di rappresentanza e la permanenza di un monastero più piccolo adiacente la chiesa di San Marziale, che è poi la chiesa dove si gira il “Don Matteo” televisivo ( abbiamo infatti condiviso per alcuni periodi, non senza qualche difficoltà, il cantiere con il set). I lavori sono terminati nell’ottobre 2009 per un importo complessivo di circa 12 milioni di euro. Il progetto architettonico è calibrato a diversi livelli che vanno dalla conservazione pura degli elementi architettonici originali (abbiamo voluto conservare anche i più piccoli lacerti di intonaco antico), alla trasformazione radicale degli elementi compromessi, utilizzando logicamente in tali casi un linguaggio contemporaneo, ma tenendo sempre presente che l’inserimento di nuovi innesti non dovesse assumere un carattere prevalente sull’insieme. Non esistono in Italia interventi a simile scala realizzati all’interno di una città medioevale. È un buon esempio di “tutela dinamica”: quell’azione che paradossalmente, attraverso l’innovazione, rende possibile la conservazione di testimonianze altrimenti destinate all’abbandono. È un modo per superare la dicotomia tra conservazione ed innovazione. Non più un antitesi, ma innovazione intesa come mezzo per raggiungere il fine della conservazione. È questo un superamento del concetto di restauro che può essere inteso come azione svolta in due momenti distinti: conservazione della materia antica e progetto del nuovo. È tuttavia un cammino tortuoso, un percorso sospeso tra le ragioni del passato e la necessità di un presente che senza mutazioni non si attua.
L’anticittà è un’energia profonda e apparentemente pacifica che non si contrappone alla città che abitiamo, ma piuttosto la erode dall’interno. Senza grandi gesti, muovendosi pervasiva e spesso invisibile, dentro i meccanismi dello spazio urbano contemporaneo, ne allenta le connessioni, ne logora i nodi, ne compromette il funzionamento. Per svilupparsi non ha bisogno di distruggere l’eredità fisica del passato, semplicemente la conquista dall’interno e ne riconfigura gli spazi. È un fiume carsico che raccoglie in rivoli le energie vitali della vita quotidiana e le spinge verso l’individualismo e la frammentazione diluendo le relazioni umane nel territorio, costituisce enclave prive di varietà sociale e culturale e allenta i rapporti di vicinanza e trasforma in barriere fisiche i confini di identità e cultura. L’anticittà sta creando luoghi senza confini sparsi nel territorio indifferenti all’organismo geografico e antropologico cui appartengono. In questa ultima sezione i vengono presentati concorsi e opere realizzate dove, attraverso una sintesi tra la memoria ed il progetto, si cerca di superare l’anticittà. Come enunciato nella prima sezione, l’ascolto è l’unica possibilità di far emergere echi dal passato, specifici in ogni luogo, che portano naturalmente nella trama del nuovo disegno compositivo alla poetica della diversità, che non si esprime come un marchio di una riconoscibilità troppo invadente come quella di molte archistar. Al contrario tende invece ad operare in modo tale che dal contesto possano emergere ed essere selezionate energie che ne determinino le reali vocazioni future. Secondo Borges “un sovrappiù di memoria può schiacciare il presente”. È un’affermazione sottile che spiega quel distacco totale che nel nostro paese si è creato tra passato e presente. Un passato considerato intangibile, imbalsamato, inaccessibile e quindi non correlabile in alcun modo con l’azione presente. L’eccezionale discontinuità con il passato ha prodotto la sensazione che se i valori del presente non sono più certi, quelli del futuro appaiono ancora più labili e all’improvviso la concatenazione del passato con il presente è divenuta largamente ipotetica. Come, per ovvie ragioni strutturali, ogni edificio ha le proprie fondazioni calcolate per ogni specifico terreno, allo stesso modo dobbiamo inserirlo nella storia e nello spazio specifici di ogni luogo. Il nostro progetto è proprio l’interpretazione delle diversità. La poetica della diversità dunque, prende corpo dalle influenze recepite, dai percorsi del passato intrapresi, abbandonati e ancora rintracciabili ma non è un fine, è una necessità di dialogo. Questa è l’architettura.
Il racconto e gli sguardi delle persone che hanno vissuto il terremoto in un primo momento ti fanno sentire inadeguato. E’ come se il tuo bagaglio di tecnico chiamato li come esperto per affrontare il problema della ricostruzione fosse insufficiente. L’esperienza di chi ha visto il proprio ambiente trasfigurato in un attimo, di chi ha perso case, cose e a volte purtroppo anche affetti modifica inevitabilmente anche le nostre convinzioni operative. E’ come se ad un tratto i nostri riferimenti culturali venissero messi in discussione ed i principi teorici non ci sostenessero più. L’”istanza estetica” e l’”istanza storica”, celebri capisaldi Brandiani che sino a quel momento avevano delimitato il nostro campo operativo non sembrano più in grado di contenere le emozioni e le aspettative della gente. In tale stato di cose ti senti autorizzato ad aggiungere anche una terza opzione: l’”istanza emotiva”, come risposta al dolore. Nel periodo post bellico era già emersa la volontà della popolazione di ricostruire i monumenti perduti superando il limiti teorici delle varie “Carte del Restauro” che di fatto non contemplavano tale atteggiamento. La celebre frase “dove era e com’era” è appunto l’emblema di questa volontà che proprio attraverso il ripristino immediato intende rimuovere l’evento catastrofico. Ecco quindi che tutte le nostre posizioni teoriche deviano, considerando il restauro non più un fine, ma un mezzo per recuperare l’identità della popolazione colpita che nei monumenti identifica la memoria collettiva perduta. A mio avviso è utile anche considerare la circostanza temporale: l’approccio metodologico al restauro di un monumento che nel corso dei secoli è stato per ragioni storiche , economiche e sociali abbandonato al suo destino e che quindi ha subito un degrado quasi condiviso e accettato, non può essere uguale a quello di monumento, simbolo di una collettività, che in un istante viene distrutto contro la volontà di tutti. Nella concezione ciclica dello scorrere del tempo, tipica delle culture orientali, questo atteggiamento è prassi. Ogni monumento viene costantemente “rinnovato”, in modo da trasmetterne al futuro la valenza simbolica. In occidente, la concezione lineare del tempo e l’approccio scientifico documentale all’elemento materico trascurano forse il valore simbolico che ha l’immagine del monumento. Camminare sopra le macerie di un monumento, accompagnati dallo sguardo della gente che in te vede il possibile tramite attraverso il quale potrà riavere quanto perduto, è un’esperienza particolare. Senti quasi l’obbligo morale di riportare le lancette dell’orologio ad un attimo prima del terremoto!
Il rapporto dell’uomo con l’acqua è antico. Dall’acqua è nata la vita e da sempre è identificata come sinonimo di salute e benessere. Non è solo il nostro elemento corporeo prevalente, ma anche fattore simbolico e culturale. Nella storia le città erano fondate in prossimità di corsi d’acqua o del mare, e nel mondo romano le terme costituivano un elemento essenziale nella vita quotidiana, che persiste ancora oggi nel mondo arabo con l’hammam. Negli ultimi anni si assiste ad un ritorno a tali abitudini anche nel mondo occidentale, che si attua attraverso una vera e propria rivoluzione. Il bagno non è più relegato in angoli remoti della casa ma acquista un ruolo primario allargando al sua valenza sia sul piano qualitativo che quantitativo e si trasforma in una Spa personale intesa come benessere in formato domestico all’interno di una più vasta visione che vede la casa, non più solo come luogo dove vivere, ma dove vivere bene. Anche le piscine non sono solo più vasche piene d’acqua , ma diventano luoghi di aggregazione che prolungano all’esterno l’esigenza di contatto del corpo con l’elemento primario. Declinando forme e materiali si possono creare ambienti che qualificano la casa. Ambienti curati, atmosfera rarefatta , musica soffusa: acqua in tutte le sue forme, piscine, docce o bagni di vapore in una parola la Spa. C’è chi spiega l’etimologia come il riferimento all’omonima città del Belgio famosa nell’antichità per le sue terme, chi invece con l’acronimo di “salus per aquam”. Una cosa è certa: la ricerca del benessere, tra stress personale e vita metropolitana, passa sempre di più attraverso momenti rilassanti dati dall’acqua in tutte le sue forme. Le immagini proposte mostrano alcune realizzazioni dove appunto viene interpretata questa nuova visione dell’acqua intesa come elemento indispensabile per il nostro benessere psicofisico.
Ogni superficie dell’architettura, interna od esterna, determina un riflesso più o meno sensibile nel nostro atteggiamento. Questo riflesso è mutevole sia perchè dipendente dalle diverse sensibilità dei fruitori, ma è mutevole anche nel corso del tempo, in quanto ogni elemento esistente viene inevitabilmente trasformato dal passaggio del tempo. Forse i due aspetti sono correlati: è come se con il passare del tempo si sedimentassero nelle superfici architettoniche tutte le sensazioni delle persone con cui sono entrate in contatto. è una sorta di reciprocità nella quale l’oggetto ed il soggetto dell’azione si condizionano a vicenda modificandosi in continuazione. è indubbio, anche se oggi ancora inspiegabile, che una forma dell’energia del fruitore resti “impigliata” nelle superfici con cui viene a contatto. è utile ricordare la frase di Wenders: “le forme dell’architettura contemporanea hanno superfici lisce, mentre è importante che il materiale abbia una sua trama a grana grossa sulla quale i ricordi possano restare impigliati”, infatti spesso le superfici dell’architettura contemporanea non sanno invecchiare, restando impermeabili a questa preziosa interazione con l’uomo ed indisponibili a costruire quel delicato ma fondamentale rapporto tra la superficie e la memoria. La percezione estetica di una forma architettonica, pur nella sua apparente “superficialità”, è in realtà proprio la conseguenza di quel rapporto che che si attua. Questa azione diventa linguaggio. Il linguaggio architettonico dovrà essere quindi il mezzo e non il fine del progetto dell’architetto. Ogni opera di architettura infatti, potrà dirsi realmente compiuta solo quando questo meccanismo entra in azione, solo nel momento in cui condiziona ed interagisce con il fruitore coinvolgendolo. Quante volte siamo entrati in contatto con forme e superfici contemporanee ricevendone una sensazione di freddezza? Questa sensazione non è altro che la mancata interazione tra noi e le superfici. Tali elementi restano algidi nella loro purezza sino a quando l’inevitabile corruzione del tempo che passa li trasfigura, trovandoli indisponibili ad invecchiare e per questo avulsi ad ogni contesto. Il concetto semplice del passare di moda è proprio il destino delle cose che non hanno saputo interagire con la nostra sensibilità. Nelle superfici del costruito storico il tempo determina un processo di invecchiamento del materiale, che essendo naturale, produce una invidiabile patina che sembra raccontarci le tante vicende accadute e le tante vite vissute. La discontinuità delle superfici sembra proprio essere l’elemento necessario per assorbire la nostra energia . La superficie della pietra nella sua naturale irregolarità diventa il tramite attraverso il quale, quasi inconsciamente, questo processo osmotico si attua. La scelta di adottare materiali che per trama e fisicità permettono di ottenere superfici disponibili a queste interazioni con il nostro sistema percettivo è una possibilità che ci viene offerta oggi dalle nuove tecnologie che permettono di realizzare pietre e legno ricostruiti partendo da materiali naturali. Abbiamo ora la possibilità di attingere ad un repertorio praticamente infinito di forme e cromie, un vero e proprio alfabeto cui attingere per realizzare le nostre composizioni. E possibile, declinando con garbo i prodotti, progettare nuovi spazi contemporanei che mantengano però ancora intatta quella possibilità di interazione tra le superfici e le nostre emozioni che solo le architetture antiche sembravano in grado di mantenere. A chi, con atteggiamento di sufficienza e sottile disprezzo, dice che tali scelte sono antistoriche o peggio parla di falsità, io rispondo che il falso in architettura non esiste. Tutto ciò che è costruito per viverci è vero. Poi esiste il vero fatto bene ed il vero sbagliato. Io credo che solo la creatività, la sperimentazione e l’innovazione rendano autentica l’architettura, tutto il resto è morte, mummificazione ignoranza e volgarità. Il tabù del falso in architettura è solo una posizione transitoria che parte da una serie di corsi e ricorsi fisiologici nelle vicende umane: il passato è pieno di ritorni, rigurgiti, rivisitazioni. In architettura il passato non è mai veramente passato, ne sono prova il neo-gotico, il neo-classico e tutti i vari neo che hanno cercato di recuperare dal passato con risultati alterni. Come si fa a capire dove finisce il passato ed in quale punto si incastra con il presente? Dal punto di vista prettamente materico poi è utile ricordare che la storia dell’arte e dell’architettura sono piene di esempi nei quali materiali di diversa natura venivano simulati, basta pensare alla scagliola usata per decorare superfici ad imitazione del marmo, al finto travertino usato nella Roma rinascimentale e seicentesca per i prospetti principali dei palazzi, all’architettura dipinta che caratterizza tutta la tradizione costruttiva medioevale europea, imitando i più vari paramenti murari e per finire la finta pietra dei palazzi di Torino. Come si può poi parlare di falso e di copia, quando ogni elemento di pietra ricostruita viene messo in opera e stuccato singolarmente con la manualità assolutamente specifica di ogni operatore rendendo ogni porzione della superficie diversa ed unica? Il falso e la copia al contrario sono uno stampo ripetitivo dove la superfici sono costituite da una matrice ripetibile all’infinito e dove la costanza assoluta del prodotto è considerata un pregio. Queste nuove possibilità tecnologiche non possono da sole, quasi automaticamente, garantire risultati di grande portata: sono solo un valido mezzo attraverso il quale ogni progettista con la sua sensibilità compie il suo percorso nel tentativo di realizzare uno spazio dove si possa ricreare quel misterioso scambio di energia positiva tra la materia e l’uomo.

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